Ho partecipato qualche settimana fa alla presentazione del nuovo romanzo di Silvia Avallone nella libreria Libraccio di Ferrara. Dopo aver letto e apprezzato la Piombino operaia di Acciaio e la vallata biellese di Marina Bellezza ero curioso di sapere in quale mondo volesse trasportarci questa volta l’autrice.
Bologna. Non i portici eleganti del centro, ma la periferia, in un complesso residenziale per famiglie proletarie, i Lombriconi. E qui bisogna dare atto alla scrittrice di essere veramente efficace nel descrivere l’ambiente, nel tracciare la coreografia della storia. Pare di esserci catapultati all’improvviso, ai Lombriconi.
La sedia era una di quelle pieghevoli da campeggio, in alluminio e poliestere. La trascinava là, di fronte alla finestra della cucina, e si sedeva a guardare fuori. In silenzio, per ore.
Lo faceva da cinque anni.
Il panorama dal quarto piano non era poi così male. Oltre le colate di cemento, oltre le torri tutte uguali butterate di parabole e tapparelle sbiadite, la campagna si estendeva calma e muta come un lago verde.
Se chiudevi gli occhi, potevi persino fingere che il rumore delle auto in tangenziale fosse quello dell’acqua.
Qui si intrecciano le storie di alcuni dei protagonisti, i ragazzi della Bolofeccia (in contrapposizione alla Bolobene) che vivono in appartamenti piccoli e arrangiati, scalcinati come sono le proprie esistenze. Adele, che non si aspetta nulla di straordinario dalla vita, scopre di essere rimasta incinta di Manuel, che vuole a tutti i costi diventare ricco spacciando droga in riviera. Ha vicino a sé Zeno, che di Manuel è stato il migliore amico e che ha una madre devastata psicologicamente da un accadimento del passato.
Ma poi le loro storie si intrecciano con quelle di persone adulte: Dora che vorrebbe a tutti i costi un figlio, Serena che insegna in carcere, Fabio che ritrova la ragazza di un tempo.
Il minimo comune denominatore è il rapporto fra genitore e figlio, un rapporto che può essere il più diverso, il più strambo, il più solido possibile da caso a caso, ma che, nonostante tutto, ha sempre un’essenza unica, primitiva, riconoscibile.
Arrivava, da chissà quale universo sprofondato nel corpo. Da così lontano dentro la carne, come se provenisse da un paese straniero.
E aumentava, s’irradiava dall’ombelico a dismisura. Esatta, regolare: sessanta secondi interi. Lei lo sapeva che le avrebbe schiantato le reni. E poi, sarebbe cresciuta ancora. Si sarebbe fatta gigante come sua madre la sera prima abbandonata sul divano, come il telefono in corridoio che non aveva squillato per anni.
Le vite dei protagonisti si sovrappongono, si allontanano, si rincontrano e l’autrice le mette a nudo con precisione e dolcezza, senza giudicare.
C’era stata una stagione, nei primi anni universitari, in cui le piaceva venire qui, ai giardini Parker-Lennon, a fare un gioco.
A maggio, quando il vento staccava i fiori dagli ippocastani e sembrava nevicasse, si sedeva nel punto più isolato e scosceso, sotto i rami bianchi di una betulla, sulla panchina che avevano ribattezzato, lei e la sua migliore amica, “da dove la vita è perfetta”.
Ma da dove la vita è perfetta?
Il lettore se lo chiede, è invogliato a pensarci, può ripercorrere la sua storia cercando questo punto.
Da dove la vita è perfetta
Silvia Avallone
Rizzoli – Collana: Scala Italiani
Pagine: 376
Anno 2017