Ci sono libri che anziché limitarsi a raccontare storie dipanano il meccanismo (stocastico) che genera le vite, queste narrazioni hanno come essenza la non-finitudine: in una delle novelle de Le mille e una notte, Shahrazad racconta Le mille e una notte; nell’Amleto, una compagnia di guitti recita l’Amleto; nella seconda parte del Don Chisciotte, s’ipotizza che i personaggi abbiano letto la prima; tutte queste strutture creano racconti che contengono sé stessi e tendono a infinito: questa è l’architettura di Ferrovie del Messico di Gian Marco Griffi.
La vicenda è compresa fra il gennaio e il febbraio del ’44, quando tutti -ma proprio tutti, salvo Hitler- sanno che le potenze del Patto d’Acciaio hanno perso la guerra. I reietti cercano di sopravvivere agli ultimi singulti di una violenza insensata, l’élite s’inebria del tramonto wagneriano, madido di caos, d’irrazionalità, sentore dell’apocalisse.
In questa aurea di cupa decadenza, il soldato della Repubblica Sociale Cesco Magetti –come in molti personaggi di Dickens, preda di uno stigma che lo distingue: un perenne mal di denti che cerca di lenire con vino, idrolitina e infinite sigarette- ultimo anello di una catena di comando che arriva fino ai vertici del regime fascista e a quello nazista, è incaricato di disegnare la mappa delle ferrovie del Messico: “i signori della guerra” si sono convinti, nell’insensatezza del reale, che esista una città, Santa Brígida de la Ciénaga -città mitologica, non segnata in alcuna carta- in cui è nascosta l’arma della vittoria finale.
La voce è arrivata al Führer, che dopo averci rimuginato un po’ su ha pensato: bene, devo avere una mappa della rete ferroviaria del Messico.
Cesco cerca di gestire l’incarico -che al suo livello pare assurdo ma forse ai piani alti la realtà ha una diversa decodificazione!- cercando un libro introvabile: la Historia poética y pintoresca de los ferrocarriles en México di Gustavo Adolfo Baz: contemporaneamente, Graal e stele di Rosetta per decodificare il Reale. Il gioco stocastico della vita, della quale il romanzo è isomorfo, pone innanzi allo stranito Cesco, Tilde, d’una bellezza ultramondana, avamposto muliebre contro la follia della guerra. Comincia una traiettoria, un piano narrativo tra infiniti altri che innervano l’opera, in cui Cisco insegue Tilde, la vita vera, e contemporaneamente la finzione, l’ologramma, il segno: cerca la carta della ferrovia messicana.
Ferrovie del Messico è un meccanismo generatore di traiettorie casuali e ci propone un’infinità non numerabile di personaggi straordinari: Steno, partigiano fidanzato di Tilde; Lito Zanon, addetto alla bollitura di cadaveri e Mec, il muto, compagni nella costruzione di ferrovie in America latina. Ma soprattutto Bardolf Graf, un impiegato à la Gogol, addetto al kafkiano Reparto suicidi assistiti, che per circostanze del tutto fortuite, di nuovo legate alla casualità della vita, crea l’innesco all’intera vicenda.
Ricapitoliamo: la sua (di Graf) mansione al Dipartimento suicidi assistiti, reparto Smistamento verificatori, è quella di inviare numero due verificatori laddove è richiesta la loro presenza per la verifica, appunto, di un suicidio assistito…
Come in ogni insieme infinito, Cantor ci autorizza a ritenere che il Libro non sia riassumibile, ragion per cui non tento l’impossibile sinossi!
L’essenza della non-finitudine ha come naturale complemento i cambi di canone, sia linguistici -dall’italiano al sardo, al romanesco- sia di stile, colto-sillogistico, grottesco-irrazionale, comico.
Il significante è un fiume magmatico che riempie ogni interstizio e falsifica l’esistenza del vuoto; ma Ferrovie del Messico è anche una collezione di rimandi ad altre opere: riferendosi all’infinito, non potevano mancare Borges e Bolaño, citati ampiamente, spesso implicitamente; ma l’opera più contigua è L’arcobaleno della gravità, di Pynchon, sia per l’ambientazione -che ha sullo sfondo la seconda guerra mondiale- sia per l’idea, inferita dalla fisica quantistica, del multiverso, un labirinto di possibilità alternative tutte contemporaneamente esistenti, in cui forse sussiste e forse no, anzi contemporaneamente esiste e non esiste, un libro, anzi il Libro, che spiega la logica del Tutto, che svela la razionalità di cui è intessuta la follia; questo libro conduce e non conduce all’arma risolutiva, al disordine ordinato (“…e questo apparente disordine è in realtà un ordine, anzi l’Ordine”, per dirla con il Borges de La Biblioteca di Babele).
Merita solo incidentalmente osservare come questa struttura ricalchi l’Anti-Edipo di Deleuze e Guattari, in cui si nega la sintesi dis-giuntiva del principio di non contraddizione in favore di una sintesi con-giuntiva, in virtù della quale, pirandellianamente, ogni cosa è vera ed è vero anche il suo contrario.
Perché, come spesso accade in letteratura –cui la vita s’ispira e non al contrario, come molti credono– l’arma spettrale, risolutiva è obiettivo solo delle forze del Male? Perché il Bene non s’attiva alla ricerca? Giacché, come in Tolkien, l’armageddon è la corruzione, di cui si può servire solo il Male, il Bene può cercare d’impedire che l’arma sia rinvenuta o, al più, provare a distruggerla ma non può utilizzarla.
Chi pensi che la verità sia impossibile da raggiungere, oppure, addirittura, sia sfuggente, elusiva, un comando che la volontà di potenza impartisce all’epistemologia (Nietzsche, ovviamente), assente, come Dio nella sua luminosa contumacia, chi pensi che Tutto dipenda da tutto, che Hegel avesse torto e Popper ragione e che la storia non sia logos ma caos, chi pensi che tutto questo richieda, per essere spiegato, un linguaggio che alterni ogni tipo di canone e ogni tipologia di figura retorica, troverà in Ferrovie del Messico elisir per le sue metafisiche.
FERROVIE DEL MESSICO
Gian Marco Griffi
Laurana (Fremen)
pp. 824
euro 22