Lo ammetto: i libri che parlano di libri, di scrittura e di scrittori sono il mio pallino. Ne ho una libreria piena e ancora non mi bastano. Perciò, quando ho visto “Il ladro di nebbia” di Lavinia Petti e ne ho scorso le prime righe, ho subito voluto farlo mio. Più ancora dopo che il libraio, vedendomi già irretita dalla prima pagina, ha esclamato alle mie spalle “stupendo!” senza troppi giri di parole. Trattandosi di un giovane libraio vecchio stampo, di quelli che i libri prima di venderli li leggono anche, ho deciso di fidarmi carica di aspettative. Chi fosse questa Lavinia Petti non ne avevo idea. “Un’esordiente”, mi aveva detto, aggiungendo curiosità alla mia voglia di leggere. Così, una volta a casa, quando ormai fuori era buio, ho ripreso la lettura pronta a finirla quella notte stessa.
Ma qualcosa non ha funzionato e l’incantesimo si è rotto.
L’erba della Collina sospira. Dicono che se la si ascolta
attentamente, nelle gelide notti della merla, si possono
udire le storie che narra. Sono le storie delle genti
straordinarie che per poco vissero e per sempre morirono,
e che nell’oblio di questo cimitero un giorno svanirono.
Io sono una di quelle storie smarrite. Perché una volta fu
decisa per me una sorte peggiore del morire… e fu allora
che io smisi di esistere.
Ambientato in una Napoli gotica e fumosa decisamente accattivante, la storia racconta le avventure di Antonio M. Fonte – scrittore dall’infanzia non facile, volutamente spigoloso ma ben definito dall’autrice nei sui tratti asociali – che si perde, una sera, vagabondando per la città, ritrovandosi poi davanti ad un palazzo avvolto nel mistero. Dentro, un bizzarro Ufficio Oggetti Smarriti – dove si raccolgono, tra le altre innumerevoli cose, sogni perduti e ricordi caduti nell’oblio – fungerà da sfondo per dare inizio ad un lungo e avventuroso viaggio sulle tracce di una strana lettera ricevuta anni addietro.
La storia di questo scrittore fin troppo caratterizzato nella sua pedante antipatia e che improvvisamente si ritrova a fare i conti con il suo passato, si alza in volo ma non decolla del tutto. La trama e i personaggi, nel loro intento metaforico-fantastico, sono eccessivamente surreali, tanto da indurre il lettore a far valere i suoi diritti di pennacchiana memoria saltando qua e là di pagina in pagina a caccia di un qualche possibile ancoraggio per prendere fiato e tornare a stipulare il suo patto di credibilità con l’autrice. Di più ampio respiro, invece, il protagonista principale, che attrae proprio per la sua antipatia quasi magnetica, e il setting curato e in certo qual modo di gusto zafoniano. Se insomma la realtà narrata dall’autrice risulta convincente, lo è molto meno la non realtà che poco a poco prende il sopravvento disorientando e lasciando, talvolta, perplesso il lettore.
Aveva eletto a sua unica musa la gatta orba Calliope, e l’ispirazione la prendeva dai sogni, fonte inesauribile di visioni e immagini. Ogni sera seguiva un preciso rituale: bere latte caldo, ficcarsi uno stuzzicadenti in bocca, accarezzare il morbido pelo di Calliope. Poi sprofondava nella poltrona con una chiave in mano, una vecchia chiave di ferro con un perno spezzato che non apriva nessuna porta. Così Antonio si addormentava.
Si dice che una buona ricetta, e dunque un buon piatto, risulta nella pienezza del suo sapore se tutti gli ingredienti hanno un loro spazio e un loro giusto peso nella complessità dell’insieme. Qui, purtroppo, manca qualcosa o, forse, c’è qualcosa di troppo.
Il ladro di nebbia
di Petti Lavinia
Anno 2015
p.426
€ 14,90
Editore Longanesi (collana La Gaja scienza)