Il 26 settembre è approdata in Italia la serie statunitense The Handmaid’s Tale: trasposizione televisiva dell’omonimo romanzo di Margaret Atwood. Il libro è stato pubblicato per la prima volta nel 1985 ma, in Italia soprattutto, è rimasto pressoché nell’ombra fino all’annuncio della serie diretta da Bruce Miller e interpretata da Elisabeth Moss. Agli ideatori va sicuramente il merito di aver riportato in auge un romanzo distopico minacciosamente attuale.
Fine del Ventesimo secolo, Stati Uniti d’America: nell’ex Stato del Maine vige un regime totalitario di matrice teocratica, il regime galaadiano. Tutto ha cambiato nome: una rigorosa terminologia di derivazione biblica ha contaminato ogni cosa, dai negozi alle persone. La più grossa preoccupazione della Stato è quella di porre fine al “flagello” dell’infertilità, causata dalle radiazioni atomiche e da un “abuso” di varie forme di contraccezione e controllo delle nascite. Il peggior peccato-crimine è l’aborto: i medici che lo hanno praticato vengono condannati a morte, così come pure gli omosessuali e dissidenti. Da una tale situazione si è fatta strada una “rinnovata” concezione della donna: non persona, ma mero contenitore. A ogni Comandante (la più alta carica politica) la cui moglie è considerata sterile, viene assegnata un’ancella. Le Ancelle sono donne fertili, marchiate dal loro passato di ragazze madri, lesbiche, adultere, che devono provvedere a garantire una progenie alle coppie più “sfortunate”. L’assurdo triangolo comandante-moglie-ancella trova la sua legittimazione nel mito, narrato nella Genesi, di Giacobbe, Rachele e la serva Bilha. Poco importa se la sterilità riguarda l’uomo e non la donna, di questo non si fa mai apertamente ammissione. Alle ancelle vengono date solo tre possibilità per concepire, fallite le quali il loro destino diventa ancora più sinistro.
Nella completa assimilazione del personale al politico, tale scenario emerge gradualmente per mezzo della narrazione diaristica dell’ancella Difred.
Il mio nome non è Difred, ho un altro nome, che adesso nessuno usa perché è proibito. Mi dico che non è importante, un nome è come un numero di telefono, utile solo per altri; ma mi sbaglio, è importante. Tengo la coscienza di questo nome come qualcosa di nascosto, un tesoro che tornerò a scavare un giorno. È un nome sepolto, circondato di mistero come un amuleto, un amuleto sopravvissuto a un passato incredibilmente distante. La notte sto sdraiata sul letto, con gli occhi chiusi, e il mio nome è lì, sospeso dietro gli occhi, non del tutto a portata di mano, che brilla nel buio.
Difred (in lingua originale Offred) vuol dire esattamente “di Fred”: il possesso è già inscritto nel nome che non è definitivamente attribuito a un’unica persona, ma viene ceduto alle eventuali sostitute. La protagonista, pur nel suo atteggiamento apparente remissivo, resiste intimamente alla cancellazione della sua identità. Nella solitudine e nell’oscurità della notte, chiusa nella sua stanza, Difred pensa alla sua vecchia vita, ormai così distante da sembrarle quasi la storia di un’altra. Ma non dimentica, perché laddove l’azione è preclusa, solo la memoria salva dall’annientamento. C’è, dunque, in lei, un barlume di speranza, nonostante la minaccia sia sempre dietro l’angolo.
Sopravvivenza e morte sono due concetti strettamente connessi: il valore della vita femminile è misurato solo sulla base della capacità procreativa. Così la donna è condannata, di fatto, a una morte sociale, quando non addirittura fisica. L’atto stesso di dare alla luce non è più un momento intimo, personale, ma collettivo, dove la partoriente non è la protagonista ma un mero mezzo. Tutte le ancelle presenziano al Parto: unico evento, insieme alle Rigenerazioni (esecuzioni sommarie), nel quale svolgono un ruolo attivo, in un’atmosfera di macabra festosità che ricorda per assonanza la parola anglosassone party.
Immagini forti, sapientemente descritte con quel misto di apatia e quegli accessi d’indignazione che irrompono negli stati d’animo della protagonista. Il lettore si ritrova con le spalle al muro, costretto a prendere atto della facilità con la quale la paura può rendere il più onesto degli esseri umani complice delle peggiori barbarie.
Illuminanti sono i flashback che riportano ai momenti decisivi in cui il volto spaventoso del regime comincia a palesarsi nell’incredulità generale. Carico di pathos il racconto del giorno in cui tutte le donne vengono licenziate, le loro carte di credito bloccate, i loro risparmi trasferiti sul conto dei familiari di sesso maschile. Una vera e propria dichiarazione di guerra all’autonomia delle donne, un sacrificio per la “salvezza del genere umano”. Evento, questo, che assesta un colpo colmo di significato al rapporto della protagonista col compagno; perché senza parità l’amore diventa un sentimento meschino.
Lui poi mi aveva baciata come se gli avessi detto che ero convinta anch’io che le cose si sarebbero normalizzate. Ma l’equilibrio tra noi si era perso. Mi sentivo diminuita, così che quando lui mi aveva abbracciata, attirandomi a sé, ero piccola come una bambola. Avevo la sensazione che l’amore andasse avanti senza di me. Non gliene importa, pensavo. Non gliene importa niente. Forse può darsi che persino gli piaccia. Non siamo più l’uno dell’altra, non più, ma io sono sua. Un pensiero indegno, ingiusto, disonesto. Ma era quello che ci stava succedendo.
In un mondo dove le donne camminano a testa bassa, dove è vietato guardarsi negli occhi, dove la lettura così come il godimento sono vietati ai più. In un mondo simile, un uomo, anche se detiene il potere, si chiede la protagonista, può mai dirsi felice?
Sulla scia di Orwell e poi di Bradbury, Atwood pone al centro del suo mondo elementi noti sia alla storia dei totalitarismi che alla tradizione letteraria distopica, mettendoci ancora una volta in guardia da qualsiasi deriva politica che punti il dito contro la libertà di scelta e la conoscenza.
Atwood non è certo la prima a fare della science fiction un mezzo letterario per lanciare idee provocatorie che esorcizzino le paure e portino a una maggiore consapevolezza. Erede di Ursula Le Guin sotto diversi aspetti e talvolta per contrasto, immagina una realtà in cui sono state portate alle estreme conseguenze idee ancora circolanti nelle società contemporanee, rigurgiti anacronistici di religioni patriarcali e androcentriche che godono ancora di ottima salute. Il racconto dell’ancella è un romanzo tagliente, costruito per mezzo di una scrittura fluida, immediata, fresca… Così tanto da assumere la concretezza di una secchiata d’acqua gelida in faccia.
Leggere questo libro da donna provoca un brivido che permane anche dopo aver voltato l’ultima pagina. Leggerlo da uomo, chi lo sa… In ogni caso rimane un’opera carica di senso, pienamente meritevole del successo che continua a riscuotere.
Il racconto dell’ancella
Margaret Atwood
Traduzione di Camillo Pennati
Ponte alle Grazie
Milano, 2017
ISBN 978868337421
Pagine 398