Per poter scrivere racconti come quelli di Lucia Berlin bisogna aver vissuto una vita come la sua. Bisogna aver esplorato più strade e aver guardato le cose con occhi sempre diversi. Bisogna essere nati in Alaska e aver vissuto in Messico, passando per il Cile e la California. Bisogna aver indossando i panni della donna delle pulizie, così come quelli dell’alcolista. Aver vissuto una vita dai tanti volti e una sola identità. Fatto diversi lavori e tutti apprezzati in quanto modi differenti e unici di stare al mondo.
Amo le case, le cose che mi raccontano, e questo è uno dei motivi per cui non mi dispiace fare la donna delle pulizie. É proprio come leggere un libro.
A scrivere è talvolta la Berlin madre, altre volte la Berlin sorella, altre ancora la figlia o l’amante. L’autrice confonde il lettore, si nasconde tra la folla dei suoi personaggi, cambia nome e volto ma di lei non si perdono mai le tracce.
Ogni storia è raccontata facendo ricorso a quella poetica dell’urbano dal sapore tutto americano, dove le libellule ricordano gli elicotteri della polizia di Oakland.
Nell’altalena tra il cinismo e l’amore per la vita che attraversa l’intero libro, l’egoismo dell’alcolizzata incapace di smettere, cede il passo allo stupore dell’infermiera che assiste incredula alla vita che resiste.
Mi piace il mio lavoro al pronto soccorso. Sangue, ossa, tendini a me sembrano affermazioni solenni. Resto senza parole davanti al corpo umano, alla sua capacità di resistenza.
Immagini forti, parole brusche, nascondono (e neanche troppo bene) una profonda sensibilità, che fa apprezzare ai lettori il bello di quelle esistenze “sporche” e inquiete. Si riscopre, così, la ricchezza antropologica degli incontri in ambienti insospettabili come le lavanderie a gettoni, dove “mentre stai seduto lì, tutta la vita ti passa davanti agli occhi, come se stessi affogando”.
Attraverso le maschere di personaggi che sembrano usciti da “una foto di Diane Arbus” la vita viene esplorata e raccontata in tutte le sue fasi: dall’infanzia difficile, al caos della giovinezza, fino alla solitudine della vecchiaia. Fasi accompagnate dal variare della scrittura stessa: all’inizio schietta e diretta, poi via via sempre più intessuta di riflessioni.
Lucia Berlin racconta di carceri, ospedali, centri di riabilitazione e sobborghi. Luoghi dove tutto il dolore, anche quello immaginario, “è sempre vero”, senza tuttavia scadere mai nel patetico. E dove la felicità si avverte dalle “guance indolenzite per il troppo ridere”.
I racconti formano insieme un unico grande racconto. Sono disposti in ordine cronologicamente sparso. Lasciano al lettore il piacere di ricostruire la storia di questa donna e di riscoprirne (purtroppo postumo) il talento di scrittrice.
Alla fine si ha come la sensazione di aver fatto parte della sua vita, di essere stati presenti quando si è immersa con César nell’oceano o quando ha aiutato il nonno a staccarsi i denti uno ad uno. Poco importa cosa le sia accaduto veramente e cosa è invece frutto della sua immaginazione.
Si può mentire e allo stesso tempo dire la verità. Questo racconto è buono, e ha qualcosa di sincero, non importa da dove viene.
La donna che scriveva racconti
di Lucia Berlin
Bollati Boringhieri
Anno 2016
traduzione di Federica Aceto
Pagine 464
Euro 18,50
ISBN 978-88-339-7457-6
Disponibile anche in eBook