Tutti sanno che stai sfruttando una donna maltrattata e analfabeta che ha la metà dei tuoi anni.
Arriva così, perentoria come una sentenza, una lettera anonima a Coleman Silk, professore universitario di lettere classiche ormai in pensione. E da questo episodio prende spunto il titolo del primo capitolo del romanzo denso che è La macchia umana: Tutti sanno.
Durante gli ultimi anni del suo insegnamento, Coleman era stato allontanato dal college per un’infondata accusa di razzismo, dovuta al fraintendimento di un termine da lui utilizzato in un’accezione non discriminatoria nei confronti di due studenti di colore. E ora, a settantun anni, rimasto vedovo, sta vivendo una relazione con una trentaquattrenne che fa le pulizie nel college dove lui, fino a poco tempo prima, ha insegnato. Una vicenda troppo scontata perfino per farne del gossip soddisfacente, per i tutti che tutto sanno:
A settantun anni, ecco Faunia; nel 1998, ecco il viagra.
Una banale storia di dipendenza psicologica e devianza che perpetra e allo stesso tempo sintetizza tutta la vita di lei, Faunia, precedentemente sposata con un uomo violento, reduce di guerra e affetto da disturbo da stress post traumatico.
Ma il granitico tutti sanno del primo capitolo si sgretola pagina dopo pagina, in una nuova, modesta consapevolezza di quanto il conoscere qualcosa su qualsivoglia aspetto dell’esistenza altrui sia mera illusione; come se già con il termine “sapere” si usasse uno strumento che, di per sé, falsifica l’oggetto: proprio perché non si tratta di oggetti di studio, bensì di esistenze,
di tutto ciò che sta sotto l’anarchia del corso degli avvenimenti, le incertezze, i contrattempi, il disaccordo, le traumatiche irregolarità che caratterizzano le vicende umane.
Tutte le certezze nel corso del romanzo finiscono così per rovesciarsi: perché
tutti sanno è l’invocazione del cliché e l’inizio della banalizzazione dell’esperienza, e sono proprio la solennità e la presunta autorevolezza con cui la gente formula il cliché a riuscire così insopportabili. Ciò che noi sappiamo è che, in un modo non stereotipato, nessuno sa nulla.
L’immagine iniziale di una Faunia analfabeta circuita da un vecchio pervertito si ribalta in una figura di donna dalla personalità forte e dotata di una saggezza primitiva, così come il rapporto che intrattiene con Coleman, etichettato senza possibilità di appello come torbido dai più, acquisisce riga dopo riga una limpidezza e una purezza insperate:
Fu il momento in cui Coleman si sentì più vicino a qualcuno. L’amava. Perché è così quando ami qualcuno: quando li vedi pronti ad affrontare il peggio. Non coraggiosi. Non eroici. Solo pronti. Lui non aveva riserve su di lei. Nessuna. Era una cosa che andava oltre i calcoli e i ragionamenti. Era una cosa istintiva.
Il gioco dello smantellamento delle certezze finisce, infine, per coinvolgere anche il lettore in prima persona, beffeggiandolo quasi, quando a un certo punto del romanzo vede crollare con violenza un caposaldo della storia che, senza farci caso, aveva dato per scontato fino a quel momento; e si troverà disorientato, proverà a tornare indietro nella lettura, arrendendosi poi all’idea di essere stato anch’egli vittima della vile presunzione di sapere come stanno le cose veramente.
Questo perché Coleman ha un segreto. L’ha tenuto nascosto per tutta la vita, ostinatamente e caparbiamente. Decide di rivelarlo a Faunia soltanto alla fine della propria esistenza, così come Roth sceglie di svelarlo al lettore in ritardo, a storia iniziata.
Non è un caso, forse, se Silk decide di aprirsi proprio con lei, una donna che ha la metà dei suoi anni e un centesimo della sua istruzione:
Non le interessa giudicare: ha visto troppe cose per queste cazzate.
LA MACCHIA UMANA
di Philip Roth
Traduzione di Vincenzo Mantovani
Einaudi
Un Roth grandioso, per me. Con alcune scene indimenticabili