LA PRIMA FOGLIA: intervista a Cesare Di Cola

È dell’ultima pubblicazione di Cesare Di Cola che parleremo con l’autore, al quale innanzitutto chiediamo: che gestazione ha avuto un’opera come La prima foglia, in cui all’immagine si sposa la parola poetica? Qual è stato il primo embrione di questo progetto, come si è arrivati dal pensiero di raccogliere insieme, di organizzare in volume alcune immagini alla più complessa operazione culturale di accostare a quelle immagini (il mondo come lo vede e vuole mostrarcelo il fotografo) i versi di grandi poeti (il mondo come lo vedono coloro che per esprimersi usano la parola e, in particolare, la poesia)?

La prima foglia è un lavoro che si è andato facendo. Un processo che ha attraversato linee d’ombra, che si è innervato dall’incontro con la poesia di alcuni autori contemporanei e che è stato concepito anche grazie al “lievito padre”, una vecchia fotocamera medio formato e un retino realizzato alla fine degli anni ’70 su una pellicola trasparente tipografica. Le immagini quotidiane del mio andare a zonzo per il territorio di Castelnuovo di Porto si incastrano, secondo stratificazioni temporali non lineari, con quelle che ritraggono il paesaggio domestico e intimo.

Un tragitto visivo con la distanza sentimentale di chi non è nato e cresciuto in quei posti, che purtuttavia sono depositari di memorie pronte ad essere rivitalizzate e a tradursi in divaganti fantasticherie.

In realtà, era mia intenzione originaria focalizzare esclusivamente l’immagine-mito del giardino, quello della mia prima casa castelnuovese; un microcosmo parallelo ritagliato dal tessuto caotico del mondo, confine tra il pubblico e il privato, con i suoi topos e contraddittori rimandi letterari. Un trasloco forzato e l’esperienza del lutto hanno fatto irruzione, interrompendo quella ricerca iniziata e causando lo spostamento dello sguardo.

La scelta, poi, di agganciare testi poetici agli interstizi delle immagini scaturisce da un prolungamento della ricerca stessa, in maniera piuttosto naturale: azzardare, sperimentare una forma compartecipata tra linguaggi diversi e porre in dialogo (non escludendo cortocircuiti) percezioni di vita quotidiana, tracce lungo tragitti abituali ed evocazione della parola poetica. Testi come fotogrammi, partecipi della serialità dei dittici, all’interno della sequenza; una specola ulteriore per il flusso visionario e il retentissement del lettore “viandante”. E alla poesia debbo il titolo del volume, mutuato da un componimento in versi di Fëdor Tjutčev, nella traduzione di Tommaso Landolfi.

La scelta delle immagini è molto varia. Aspetti naturalistici e paesaggistici, oggetti di uso quotidiano, giocattoli, stanze disadorne. C’è un filo conduttore che unisce, se non le immagini, i momenti in cui lo sguardo si è posato su di esse, le ha colte e immortalate?

In fin dei conti, il protagonista di questo “canzoniere per immagini” (così Giancarlo Pontiggia definisce La prima foglia) è il paesaggio, reale e della rêverie.

Predisporsi alla percezione delle cose del mondo senza pregiudizi, scegliere un punto di vista, individuare la matrice di un racconto attraverso il più ambiguo dei linguaggi; questi, invece, i presupposti/propositi di un lavoro in fieri che ho cercato di concretizzare in questo progetto editoriale, con il supporto autoriale di Andrea Cavallotti (che ha realizzato la grafica del fotolibro) e dell’editore Roberto Maggiori.

In alcuni dei componimenti poetici riportati nel libro è sottolineata la connessione tra il senso della vista ‒ il vedere e l’atto del guardare (il guardare è già intenzionale rispetto al vedere, che può essere casuale) ‒ e la poesia. Per esempio, in Rima palpebralis Valerio Magrelli dice:
Gli occhi si consumano come matite
e la sera disegnano sul cervello
figure appena sgrossate e confuse.
Molto visuale, tutta giocata sulle immagini, Linea gotica, che descrive una casa disabitata, sepolta in una pelle di fogliame, con gli umili dettagli dell’abbandono dove una volta c’era vita pulsante:
… la scarpa
rovesciata che germoglia
sul gradino, il flaccido pallore
dello straccio abbandonato al ramo. (Wolfango Testoni)
Quali distanze o consonanze fra immagine e parola hanno guidato le tue scelte? 

Parole e immagini sono perlopiù segni contrastanti, per cui risulta difficile creare iconotesti, in cui uno dei due elementi non si riduca a mera didascalia. Se la parola è assertiva, la fotografia si caratterizza per il suo potere ostensivo, memoriale, inconscio, ecmnesico. Penso, però, che esistano delle consonanze. Trovo, per esempio, interessanti alcune riflessioni sulla genesi e la temporalità della parola poetica, sul suo rapporto con il reale e l’immaginario.

Per Milo De Angelis la parola poetica giunge da un luogo arcaico, remoto, e intraprende un lungo e arduo cammino che cresce di intensità, di verità, e che è pieno di ostacoli, muraglie e fossati, posti di blocco.

Nello spazio-poesia, sostiene Giancarlo Pontiggia, ogni parola, sembra essere decisiva, definitiva; è lo sguardo posto, in bilico perenne, fra mondo e anima. Anche la fotografia è un processo nel tempo, che parte da cosa guardare di una vita soverchiante; a volte l’immagine, indice e icona, ne restituisce il mistero, a volte ne risarcisce l’approssimazione. Si tratta, in fondo, di una trasformazione di una realtà concreta in una realtà fittizia, che fa appello all’interpretazione e all’immaginazione del lettore. Ritengo che la fotografia resa pubblica, come la poesia per Andrea Zanzotto, sia una lettera che vuol ritornare al mittente. L’immagine fotografica dovrebbe girare un po’ di mondo, uscire dalla propria “idiozia”, raccogliere, raspar su, mendicare.

Che rapporto c’è, per te, fra la realtà (gli oggetti, i paesaggi, le figure umane) e lo sguardo che li consacra in immagine fotografica? Cosa conta, per te, in questa operazione: l’aspetto documentario? La conservazione della memoria di ciò che è ora e qui?

L’intento di documentare la realtà e custodire la memoria ha caratterizzato fortemente il mio approccio originario alla fotografia e gli anni passati a fianco a mio padre, fotografo: il reportage storico-culturale, il ritratto del paesaggio calabrese (indagando la complessità dei segni e la trasformazione del territorio), la ricerca antropologica della civiltà rurale.

L’immagine fotografica beneficia di un transfert di realtà dalla cosa alla sua riproduzione. E questa proprietà, insieme all’ontologica ambiguità, continua ad essere, per me, elemento attrattivo. Da più di un decennio, però, la mia indagine presuppone la messa in discussione della capacità puramente descrittiva e il superamento del fatto che tutto si risolva nel vedere e nell’immagine. Prima accennavo alla duplice caratteristica della fotografia, il suo essere nel contempo indice e icona. Le fotografie e la loro calibrata disposizione in una sequenza – scrive Roberto Salbitani nell’Introduzione a La prima foglia – possono fornire dei potenti stimoli per l’osservazione di come va il mondo in quel preciso momento, possono «aiutarci a perlustrare il visibile e a scandagliare il caos della realtà per permetterci poi di ordinarla ed estrarne un senso, necessario al nostro orientamento». Per chi osserva il mondo attraverso un dispositivo ottico, forse il “miracolo segreto” risiede proprio nella risoluzione del rapporto bidirezionale tra autorappresentazione del paesaggio nelle immagini e proiezione soggettiva di quello che resta dopo lo sguardo, tra descrizione e narrazione, tra theōría e mŷthos. L’uomo – sostiene Andrea Zanzotto nel saggio Il paesaggio come eros della terra – intraprende una serie interminabile di tentativi «per giungere ad esperire le cose come si verificano; ma fino a quel momento egli deve illudersi, avvertendo soltanto una specie di “movimento di andata e ritorno”, o di “scambio”, tra l’io in continua e perenne autoformazione e il paesaggio come orizzonte percettivo totale, come “mondo”».

Grazie, Cesare, per il tuo tempo e le tue risposte.

…predisporsi alla percezione delle cose del mondo senza pregiudizi, scegliere un punto di vista, individuare la matrice di un racconto attraverso il più ambiguo dei linguaggi

Biografia
Cesare Di Cola (Cosenza, 1968) s’innamora della fotografia già da ragazzo, quando apprende la tecnica dal padre, Giuliano, fotografo. Il campo prediletto dell’artista è dapprima il paesaggio calabrese, al quale si accosta con approccio storico-culturale. Dagli anni Ottanta in poi, Di Cola s’interessa in particolare della realtà rurale. Un momento importante del suo percorso è la mostra itinerante a cura del SIULP Il ricordo e la speranza, dedicata a Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. La mostra, inaugurata a Niscemi nel 1993, approda all’inizio del nuovo millennio anche in Brasile, ospitata dal Tribunale di Stato di Rio de Janeiro e dalla sede dell’Ajuris di Porto Alegre. Dal 2013 Cesare di Cola vive in un piccolo borgo medioevale non distante da Roma; la nuova ambientazione da un lato, la maturità dall’altro trasformano la sua poetica. Il cambiamento produce una prima, felice espressione, l’opera Dimore del paesaggio, volume fotografico pubblicato nel 2017 (Fornacetredici ed.), cui segue, nel 2019, una mostra presso l’Istituto Italiano di Cultura di Varsavia. La mostra, rifacendosi in parte a tale opera, indaga attraverso il paesaggio urbano e rurale il rapporto fra natura e cultura. A distanza di sette anni, la casa editrice Quinlan pubblica La prima foglia, con prefazione di Giancarlo Pontiggia e introduzione di Roberto Salbitani; si tratta di un’elegante, raffinato volume in cui le immagini incontrano i versi di importanti poeti italiani (Maurizio Cucchi, Massimo Gezzi, Valerio Magrelli, Guido Mazzoni, Cristiano Poletti, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Wolfango Testoni, Gian Mario Villalta).

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