Chi scrive è spesso inseguito da un passato che chiede un riconoscimento. La letteratura esige questo ritorno temporale.
Con Leggenda privata, già dal titolo, Michele Mari promette qualcosa d’insolito. Ci consegna, quindi, una “mitologia personale” onirico-delirante, dai connotati horror (a tratti splatter), dove il “lievito romanzesco” risiede nella forma, ma non nella sostanza.
L’autore è tenuto in ostaggio da demoni marci e disgustosi (l’Accademia dei Ciechi) personificazioni di una sorta di Super-io letterario. La richiesta è una e martellante: un’autobiografia scabrosa e senza censure.
Così, tra una visita e l’altra dei più inquietanti esponenti dell’Accademia, Mari si mette a nudo, procedendo per libere associazioni e intervallando il testo con delle foto rubate dall’album di famiglia (immagini di fronte alle quali la prossemica coglierebbe l’orrore più volte nominato). Nessun abbraccio, nessun sorriso da un padre (Enzo Mari) che nel figlio ha sempre suscitato un “ammirato terrore” e da una madre (Iela Mari) sempre triste, di una tristezza irrinunciabile, pena la perdita dell’intelligenza. E, ancora, un bacio della buonanotte di proustiana memoria, ricevuto di nascosto a instillare il senso di colpa.
Eppure non manca una certa nostalgia. Nostalgia del “non più”, certo, ma anche del “mai stato”.
Mio padre, non si pensi non gli abbia voluto bene: solo, non è mai stato facile dirlo (dirmelo-dirglielo) questo bene, più facile comunque da lontano, in absentia: e difficile, in ogni caso, sceverare il bene dall’ammirazione. Esattamente come nei confronti di mia madre è difficile distinguere il bene dalla compassione.
Ai demoni della letteratura, si aggiungono, dunque, persone reali tra le quali spiccano nomi illustri: Montale, Sottsass, Jannacci e Gaber… Parenti e amici che hanno fatto parte di un’infanzia apparentemente dorata, in cui, da un lato l’invidia, dall’altro il disprezzo per la mediocrità si contendevano il Michele bambino e adolescente, sempre scisso tra la fedeltà ai valori materni e quella ai valori paterni.
Così, si viveva come in una gimkana: spostandosi da uno spigolo all’altro del quadrilatero formato da casa nostra, casa di mio padre, casa dei nonni paterni e casa di quelli materni, c’erano cose che erano permesse e altre che erano vietate.
Il lessico raffinato e ironico, frammentario, talvolta aulico e colto, altre dialettale, vertiginoso nei salti da un registro all’altro, mette alla prova il lettore. Quest’ultimo avrà bisogno di un po’ di tempo e di qualche pagina prima di sentirsi conquistato. L’utilizzo della lingua spiazza: onomatopee, diminutivi e vezzeggiativi dischiudono scenari minacciosi. La vocazione giocosa della scrittura si fa esplicita:
[…] mi sento un privilegiato non solo perché da bambino ho giocato tanto, io, ma perché quel gioco me lo sono portato dietro ed è tuttora con me: la mia ricchezza. (Anche i libri sono un gioco, cui rivendico con orgoglio la natura di frin-frin).
Alla fine, forse qualcuno avrà da obiettare che non si tratta di una vera autobiografia, che mancano dei passaggi. Ma in ogni caso Mari la spunta: sazia la fame dei suoi mostri con bocconi di un’esistenza le cui mancanze e i cui vuoti si riscoprono pregni di significato.
Leggenda privata
Michele Mari
Giulio Einaudi Editore
Supercoralli
Torino, 2017
Pagine 176
Disponibile anche in Ebook
ISBN 9788858425411