Penna a penna. Intervista con l’autore: Ilaria Palomba

ilariapalombaQuando ha cominciato a scrivere? Era sicura di voler diventare una scrittrice?
Ero molto piccola, sette anni mi sembra. Allora volevo fare l’astronauta. Ero una bambina piuttosto sola, i miei lavoravano tutto il giorno. Avevo degli amici ma non riuscivo a sentirmi bene con gli altri, ero una specie di alieno, non riuscivo a entusiasmarmi per le cose che piacevano a tutti: i cartoni animati, i videogame, i giochi di gruppo. Mi piacevano i film di Charlie Chaplin e mi piaceva la gente assurda, gli incompresi. Una volta mia madre portò a casa un dipinto di un ragazzo con una grave malattia cardiaca. Era un cuore anatomico diviso e intersecato da vene, una parte bianca, l’altra nera. Per me erano il Bene e il Male. Faceva paura. Non so perché ma fu proprio questo il primo momento in cui scrissi.

Che cosa scriveva all’inizio? È stata incoraggiata da qualcuno e se sì, da chi?
Scrivevo poesie, a dire il vero bruttissime. Ma era un modo per spiegarmi il mondo. E poi flussi di coscienza. No, non sono stata molto incoraggiata, per lungo tempo ho scritto solo per me e quando ho iniziato a dire in giro di voler diventare scrittrice (avevo l’illusione che si potesse vivere solo di scrittura), tutti hanno cercato di redimermi. I miei erano disperati perché andavo via da Bari e interrompevo gli studi. All’inizio cavarmela economicamente a Roma non è stato un gioco, facevo colloqui su colloqui e niente, non trovavo nulla, una triennale in Filosofia è davvero un pugno di mosche in mano (certo, poi la Filosofia mi è tornata utile dal punto di vista esistenziale). Ora posso dire a gran voce di aver sfatato tutto quel muro di ostilità che avevo intorno; al di là dei libri pubblicati, lavoro in ambiti che hanno a che fare con la letteratura e sto riuscendo a vivere di scrittura.

Come si fa a sviluppare una buona tecnica della scrittura? Ci sono trucchi che si possono usare per migliorare?
Regole, tecnica narrativa, equilibrio si possono imparare (e insegnare). Poi ci sono autori che sanno infrangerle, le regole. E sono quelli che più amo. Ma c’è una cosa imprescindibile e universalmente valida: leggere, leggere, leggere. E rubare dove è possibile (dai classici preferibilmente). Il resto, se c’è, è un dono.

C’è una cosa che ha scritto tanto tempo fa e che le piace quanto ciò che scrive adesso?
No, quello che scrivevo, riletto ora, mi fa ridere per l’ingenuità e la mancanza di stile. Scrivevo senza leggere nulla, era puro sfogo, una tecnica auto-terapeutica. Un modo per vivere una vita che non vivevo, avere amici che non avevo, fare pace con il buio. Ho iniziato a leggere piuttosto tardi, a 16-17 anni, prima con Baudelaire e Rimbaud, poi con la Beat Generation, e solo all’università ho scoperto la bellezza dei romanzi classici otto-novecenteschi.
Anche adesso non sono una che si piace, faccio innumerevoli stesure e, alla fine, una volta pubblicati, i libri che ho scritto quasi non mi rispecchiano più, mi sfido a fare di meglio la volta successiva. È una nevrosi, credo.

Le sue storie (i suoi libri) nascono meglio quando scrive in tranquillità o sotto stress?
Nascono storie diverse. Indubbiamente in tranquillità c’è una maggiore cura della parola. Sotto stress però proliferano idee, personaggi, immagini, storie possibili. Direi: la prima stesura sotto stress e le successive in tranquillità (quando si può).

Legge molto? Quali scrittori l’hanno influenzata maggiormente?
Leggo molte più ore al giorno di quanto scriva. Alcuni libri sono incisi sottopelle e spesso vi torno su per rileggerne qualche passo. Ci sono due romanzi in particolare che ho letto a diciotto anni e mi hanno segnata, è per questo che amo il monologo: Memorie dal sottosuolo di Dostoevskij e Il lupo della steppa di Herman Hesse, ho provato un grado di immedesimazione assoluto con i narratori, simili, per altro, oscuri, rancorosi, distanti dalla società e in lotta perenne con il genere umano. Però leggo anche moltissima filosofia, mi aiuta a comprendere l’umano, la vita e la morte. Eppure alle volte mi sembra di non aver letto nulla, vorrei poter divorare tutti i classici moderni e contemporanei, tutti! Il mio grande sogno è prendermi un anno sabbatico (ma forse ce ne vorrebbero 2-3-10) per leggere, scrivere e viaggiare, solo leggere, scrivere e viaggiare, vivere ogni mese in un luogo diverso e cambiare Paese in base al libro che sto leggendo e scrivere in base alla città in cui sto abitando. Una grande utopia insomma!

Ha delle abitudini quando scrive? Predilige dei luoghi particolari dove scrivere?
I primi due romanzi li ho scritti in orari diurni, prevalentemente tra biblioteche e caffè letterari. Adesso ho cambiato abitudini, di giorno lavoro e quindi scrivo la sera, dalle undici all’una, sul divano rosso, con un bicchiere di vino sul piccolo tavolo nero, Mozart o Moderat in cuffia.

Uno scrittore può imparare lo stile?
Sì, leggendo moltissimo. Leggendo possibilmente cose valide (i classici, come sempre). Sono dell’idea che leggere narrativa spicciola serva a poco e anzi sia dannosissimo, specialmente se si ha una predisposizione all’empatia.

Il libro è già tutto presente nella sua testa prima di cominciare a scrivere o si sviluppa, sorprendendola, mano a mano che va avanti?
È un sogno (o un incubo), è presente nel momento in cui lo vivo, poi va via via sgretolandosi e devo aggiungervi un po’ di invenzione.

Quanto c’è di autobiografico nei suoi lavori?
Tanto. Anche quando scrivo di personaggi apparentemente distanti da me. Ecco, c’è sempre un protagonista che non riesce a integrarsi nella società, ed è umiliato o ignorato o preso per folle, e deve scontrarsi con le leggi della natura umana.

Progetti per il futuro?
Un’antologia di racconti e disegni, di cui faccio parte sia come curatrice che come autrice, tutta al femminile, sul tema della stregoneria, uscirà tra febbraio e marzo per AlterEgo. In primavera terrò un laboratorio di lettura e scrittura autobiografica alla Scuola Omero, basato su alcuni importanti libri che hanno segnato il Novecento. E poi c’è un romanzo scritto a quattro mani con Luigi Annibaldi, che uscirà il prossimo autunno.

Scrittura a parte, qual è la forma d’arte che sente più affine?
La Performance-art. Ho lavorato con reportage, interviste, un saggio, su questa forma d’arte così archetipica, antichissima e postmoderna, ho incontrato molti performer, ciascuno con la sua poetica e modalità espressiva (body art, body painting, performazione, gender art, video art, sperimentazione sonora, anti teatro, poesia performativa), e in ciascuno ho ritrovato una grande potenza rituale, una capacità di spezzare la propria individualità e ricongiungersi con il sacro, non in termini strettamente religiosi. Ho fatto anch’io un percorso da performer, tra il 2012 e il 2015, poi mi sono fermata. È un mondo che a tratti mi manca ma credo sia importante fare delle scelte, non disperdersi, la poliedricità può essere un’arma a doppio taglio. Voglio che di me parli solo la scrittura.

Il suo rapporto con le critiche e la Critica?
Accetto le critiche quando sono costruttive e non foriere di dominazione e assoggettamento. Come critici letterari apprezzo molto Giorgio Patrizi, Massimo Onofri, Filippo La Porta, Nicola Vacca, Daniela Matronola.

Quali sono le sue piccole manie?
Non sopporto i filtri spaiati del tabacco, prima di aprire un nuovo blister devono essere finiti tutti quelli del precedente, altrimenti c’è un senso di disarmonia che m’innervosisce. In compenso ho la mia stanza che è l’incarnazione del caos primordiale.

 

Ilaria Palomba è laureata in Filosofia. Ha pubblicato i romanzi: Fatti male (Gaffi), tradotto in tedesco per Aufbau-Verlag, e Homo homini virus (Meridiano Zero), vincitore del Contro Premio Carver 2015 e terzo al Premio Nabokov 2015; il saggio Io sono un’opera d’arte, viaggio nel mondo della performance-art (Dal Sud), la raccolta di racconti Violentati (ErosCultura), la raccolta poetica I buchi neri divorano le stelle (Sacco). Un racconto tradotto in inglese per il Mammoth Book, l’antologia curata da Maxim Jakubowski, un altro tradotto in francese e pubblicato in duplice lingua nel numero “le BAROQUE” (2015) della rivista internazionale “Les Cahiers européens de l’imaginaire”, fondata da Michel Maffesoli e Gilbert Durand.
Lavora con un progetto biennale di arte e scrittura in un centro diurno, collabora con Scuola Omero sia nel “Mag O” che come docente, scrive per “Succedeoggi” di Nicola Fano, collabora anche come editor e consulente per AlterEgo.

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