Sono trascorsi quattro anni dal giorno in cui Justin Campbell, un ragazzino di undici anni, è uscito di casa per fare un giro con lo skateboard ed è scomparso nel nulla. La famiglia non si è mai data per vinta e ha continuato a cercare il ragazzo con ogni mezzo: tappezzando la zona di volantini, attivando un numero per le segnalazioni, aggrappandosi con le unghie alle illusioni indotte da pazzi mitomani.
La sfida più grande di questo romanzo è cominciare proprio laddove i libri sui rapimenti solitamente finiscono: “Oggi è un giorno felice per il Texas meridionale”, dichiarano all’unisono televisioni e radio. I cittadini di Southport sono incollati agli schermi e non riescono a credere che l’impossibile sia accaduto. Justin è stato ritrovato e pare stia bene. Non c’è alcun mistero da risolvere sulla sua scomparsa: fin da subito appare chiaro dove sia stato e cosa gli sia successo. Un incipit così anti-narrativo che per un momento ti chiedi se davvero la verità sia tutta lì, se non ci sia qualcos’altro che non sai. Eppure in quello che è stato definito dal New York Times uno dei migliori romanzi del 2015, anno di uscita, qualcosa spinge comunque a girare le pagine. Perché una domanda narrativa c’è. Ed è impellente: cosa succede quando di solito si chiude il sipario.
Leggere questo libro è stato è un po’ come sbirciare dal buco della serratura di una porta chiusa. Più precisamente, la porta di casa Campbell dopo il ritrovamento di Justin, nel momento in cui, svanito il clamore della notizia, c’è tutta una vita da ricostruire silenziosamente, pezzetto dopo pezzetto. Questa famiglia, dove ognuno si era ormai chiuso in una bolla di dolore per sopravvivere, è troppo abituata a soffrire e combattere per non trovarsi disorientata da una gioia così assoluta. Deve fare i conti con il fatto che il nastro non potrà semplicemente essere riavvolto, per ripartire da dove ci si era interrotti.
Griff, il fratello minore di Justin, non è più un bambino. In quei quattro anni è diventato più bravo del fratello con lo skate, ma si vergogna a farglielo sapere, perché quello scarto di capacità sarebbe il simbolo di tutta la sua assenza. Laura, la madre, è costretta ad ammettere che se al Marine Lab, un centro di riabilitazione marina dove fa volontariato, si è fatta conoscere con il suo cognome da nubile, non è soltanto per evitare che tutti la ricolleghino ai tristi fatti di cronaca, ma anche per ribadire che dalla scomparsa di Justin lei non è stata più la stessa. Eric, il padre, durante l’assenza del figlio ha trovato una triste consolazione tra le lenzuola di un’amica, Tracy. In fondo, perdere un figlio è una cicatrice capace di assolvere qualsiasi peccato. Ma se poi il figlio torna a casa, che ne sarà di quel peccato? Rimarrà assolto o diventerà all’improvviso una colpa imperdonabile?
E poi c’è nonno Cecil, che gestisce un banco dei pegni. In quei quattro anni ha cercato di essere colonna portante della famiglia, di farsi carico del dolore di tutti. Ma cosa lo terrà in vita ora che Justin è tornato?
Ci sono, in questa famiglia smembrata, delle somiglianze evidenti con i Bloch di Eccomi, l’ultimo romanzo di Jonathan Safran Foer. Sarà il modo commovente in cui si ritrovano a raccogliere i cocci di una vita o quel loro provare, tra i cocci, a rimanere famiglia.
Ho apprezzato questo romanzo soprattutto per il modo delicato che ha di narrare ogni cosa, compreso un tema come quello della violenza sui minori, che qualcun altro avrebbe ammantato di morbosità.
L’autore, prima di dirigere il dipartimento di scrittura creativa di Harvard, è stato uno skater professionista. In un’intervista ha dichiarato che c’è qualcosa che accomuna gli skaters e gli scrittori. Entrambi infatti si sentono a loro agio in zone liminali.
In un certo senso se le vanno a cercare, perché è dalle cose che gli altri ignorano o buttano via che creano qualcosa. Che si tratti di un corrimano o del modo in cui una donna si mordicchia l’interno della guancia, fanno caso ai dettagli che le persone normalmente non notano.
Questa attenzione al dettaglio mai scontato è ciò che rende a mio parere questo libro un ottimo romanzo. Johnston, come tutti i grandi scrittori, si distingue non tanto per “idee grandiose e emozioni tumultuose” ma, citando Flannery O’Connor, per il suo “infilare pantofole di pezza agli scrivani.”
Il risvolto della medaglia di questa capacità è che talvolta, forse, si cade in alcuni passaggi un po’ ridondanti: scene che, se tagliate, avrebbero reso più fluida la lettura e non avrebbero tolto niente allo spessore del libro, non nel senso in cui lo spessore conta, almeno.
Ricordami così
Bret A. Johnston
Traduzione a cura di Federica Aceto
Einaudi (Stile libero big)
Anno 2015
Pagine 464