ROMANZI BREVI di Joseph Roth

E’ raro trovare un altro scrittore la cui opera, come quella Joseph Roth – scrittore austriaco vissuto a cavallo tra il XIX^ e il XX^ secolo – sia totalmente inchiavardata nella storia del suo tempo: i suoi scritti sono una sonata monocorde sul tasto della crisi dell’occidente, focalizzata attraverso la disgregazione del suo “piccolo mondo antico”, costituto dall’Impero austro-ungarico, la cui Weltanschauung per generazioni aveva fatto da collante a popoli di culture svariate.

Le sue opere più famose sono: La marcia di Radetzky (1932), La cripta dei cappuccini (1938) e La leggenda del santo bevitore (1939), la prima scritta anteriormente alla presa del potere di Hitler (gennaio 1933), le altre in pieno Nazismo. In queste opere, in un certo senso, si fornisce compiutezza storica a cause che risalgono alla crisi immediatamente posteriore alla prima guerra mondiale, di cui Roth dà conto in altri tre romanzi brevi: La tela del ragno (1923), Hotel Savoy (1924), La ribellione (1924), pubblicati in Italia da Adelphi insieme al posteriore Il peso falso (1937), che tratta temi diversi, col titolo Romanzi brevi.

I tre romanzi descrivono magistralmente il tramonto del mondo costituitosi in Europa prima della Grande Guerra, ritraendo lo scenario di totale perdita delle coordinate culturali da parte del ceto medio, soprattutto negli imperi usciti sconfitti dal conflitto: oltre lo zarismo russo – inizialmente alleato con Francia e Gran Bretagna e travolto dalla Rivoluzione dell’ottobre 1917 – la Germania gugliermina e l’Austria-Ungheria asburgica, sostenuti dall’impero ottomano. Le impalcature socio-politiche del vecchio assetto tardo feudale erano state fatte deflagrare dall’onda d’urto dei nuovi capitalismi, in primis quello statunitense, quello francese e quello inglese, in Italia, anch’essa tra le potenze vincitrici, in nuovo sistema economico era ancora in nuce.

La crisi che ne segui mise in discussione l’idea stessa di verità, essa non aveva più un valore assoluto ed era, per dirla con Nietzsche, un comando impartito all’epistemologia dalla volontà di potenza. Nella scienza, il concetto di probabilità sostituì quello di certezza e la fisica quantistica divenne il nuovo paradigma, in luogo di quella deterministica, di derivazione newtoniana. Si viveva in un mondo stocastico, dominato dall’incertezza e la storia si preparava all’avvento dei totalitarismi, dopo quello bolscevico quelli di estrema destra.

Roth scrive i sui tre romanzi brevi mentre nuota nelle acque melmose di questo habitat e il suo canto, dalla melma della storia, diviene urlo di dolore.

Ne La tela del ragno, Roth mette in scena l’avvento dell’archetipo dell’uomo nuovo, minuscolo piccolo-borghese pronto a ogni compromesso per galleggiare nella società, privo di un qualsiasi credo morale e politico e dotato solo di un ego smisurato, mosso da un rancore livido nei confronti degli oligarchi e da un disprezzo assoluto per le masse popolari. Il protagonista è Theodor Lhose, un mediocre ufficiale tedesco della grande guerra, deluso e convinto di essere in credito nei confronti della Nazione, spinto dalla sua sete di potere, visita ogni tappa della degradazione: si prostituisce sessualmente nei confronti di un oligarca – malgrado sia attratto dalla moglie del suo datore di lavoro presso la cui casa fa da precettore al figlio – e arriva persino all’omicidio di un suo superiore gerarchico, a sua volta omicida.

Klintsche scivolò, cadde, emise un lamento. La piccozza rimase un attimo sospesa nell’aria con il manico verso l’alto, come una cosa viva, e vacillò di lato. Theodor l’afferrò, imitò Klintsche, sollevò la piccozza e la lasciò cadere facendo sibilare l’aria. Il cranio di Klintsche scricchiolò appena.

Fanno corona all’incidere verso l’inferno di Theodor, una lunga teoria di uomini devastati dalla loro stessa limitatezza, prodotto di un habitat che sta implodendo nella cieca violenza.

Un romanzo davvero impressionante per la lucidità dell’analisi storica prospettata, implicante un’orrenda preconizzazione dei terrori del nazismo, prima, della seconda guerra mondiale, poi.

In Hotel Savoy – ubicato nella città di Lodz, città già appartenente all’Impero austro-ungarico e passata alla Polonia dopo la sconfitta degli Asburgo – Roth ci fa conoscere l’archetipo del reduce della Grande Guerra: Gabriel Dan che giunge all’hotel – in fondo un non-luogo fisico che identifica idealmente la struttura culturale dell’impero asburgico – dopo tre anni di prigionia di guerra, incapace di intraprendere il viaggio di ritorno verso casa. L’albergo, incarnazione della crisi post bellica, è anche un’immane parabola della società tardo feudale: ai piani più bassi, occupati da ricchi, l’ambiente è molto più curato e persino gli orologi segnano un’ora diversa.

Era come il mondo, l’Hotel Savoy: al di fuori rifulgeva di uno splendore imponente con lo sfarzo dei suoi sette piani, ma all’interno la miseria albergava accanto a Dio.

Eppure Gabriel, che pure sembra consapevole della prigione che è l’Hotel, per via della forza che lo incatena al presente – pur avvertendo la tensione del nóstos, del ritorno – non riesce a partire, sa che il suo mondo non esiste più, è imploso come il mondo asburgico; in questa metastasi dell’attesa incompiuta, la permanenza si converte in sublimazione del ritorno a casa: rifiuta la proposta di un suo cugino che gli permetterebbe di ottenere il denaro necessario per proseguire il viaggio. Allo stesso tempo, si invaghisce, senza riuscire a dare voce ai suoi sentimenti, della bella Stasia, ballerina del varietà imprigionata nel girone dei dannati, all’ultimo piano dell’Hotel.

Una possibile redenzione, si profila con l’arrivo in città del vecchio compagno d’armi Zvonimir, un rivoluzionario per nascita, con la volontà ferrea di organizzare i moti dei lavoratori in rivolta.

Sì, stavano male gli uomini. Si preparavano da sé il loro destino e credevano che venisse da Dio.

Il germe della rivoluzione proletaria, vago eco dell’ottobre bolscevico, si propaga tra le vie della moderna Gomorra che non è risparmiata neppure da un’epidemia di tifo. Siamo al redde rationem: l’Hotel Savoy è distrutto da un incendio, fine simbolica del vecchio mondo. L’incendio salvifico consente, finalmente, a Gabriel la fuga esistenziale dal carcere del passato e un nuovo possibile orizzonte s’apre al suo futuro: il mondo nuovo ma angusto e avaro che verrà risucchiato, nel giro di qualche anno, dall’aporia del Nazismo.

Ne La ribellione, osserviamo le vicende del reduce Andreas Pum convinto che avere perso una gamba in guerra sia una vera manna: la mutilazione gli fa ottenere una licenza di suonatore di organetto, una croce di ferro da appuntarsi sui vestiti e soprattutto il rispetto del governo e della gente. Forte di questo viatico, riesce a conquistare e sposare la burrosa vedova Katharin – dalle forme generose e oscillanti come un budino su un piatto di portata – in cerca della salvaguardia sociale di un matrimonio, ma segretamente alla ricerca di un docile omuncolo-marionetta a cui tirare i fili a suo piacimento. Ma un giorno, Andreas s’imbatte nel ricco signor Arnold, reso livido di rancore con il mondo che nota Pum con bastone e stampella e gli inveisce contro tutta la sua rabbia: gli invalidi sono tutti degli impostori, mangiapane a tradimento e, soprattutto, bolscevichi. Andreas, per la prima volta nella vita, perde il lume della ragione e reagisce: sa di avere ragione, crede nella razionalità della giustizia, ma il mondo è cambiato, la crisi ha generato la paura dell’Altro, si dovrà ricredere! Quando sopraggiungerà la morte, avrà vissuto il disvelamento di un ordinamento giuridico governato da una burocrazia disumana e repressiva, farcito da leggi incomprensibili che rendono difficile il facile tramite l’inutile, volte solo a colpire i deboli e a preservare i forti.

Ahimè! Il mondo non era mutato affatto! Era sempre stato così! Solo un colpo di fortuna può far sì che non ci mandino in galera. Il nostro destino è dare scandalo e inciampare nel groviglio delle leggi che proliferano con arbitrio selvaggio.

Nei tre romanzi descritti, Roth ci conduce fin sull’orlo del baratro e con la mano tesa c’indica il crepaccio aperto sotto di noi; una civiltà al tramonto a causa dell’infedeltà alle sue origini: rinnegare la ragione per un ritorno al pensiero magico, alla mitologia; l’innesco del processo è la crisi. Nei periodi floridi, le società sono solo chiamate a trovare un criterio per ripartire le risorse, in queste fasi storiche, tutti ripongono fiducia nella democrazia, essa, con i suoi riti, funziona in maniera soddisfacente. Poi avviene qualcosa che fa inceppare il sistema, tipicamente una crisi economica, una guerra, un’epidemia, allora si perde fiducia nella ragione e il meccanismo della democrazia viene considerato inadeguato, la società si ritrova sola di fronte all’abisso; la libertà è percepita come un peso, si cerca un capo ordalico che decida senza spiegare, si persegue una logica disgiuntiva – Noi, Loro – secondo la quale una cosa è sé stessa se e solo se non è niente altro.

Quando queste variabili si allineano, come una data configurazione di pianeti nel cosmo, allora è il momento, Roth ce lo mostra con parole alate: i pifferai magici e gli incantatori di serpenti stanno per tornare sui balconi lasciati solo ieri e si ricomincia.

ROMANZI BREVI
Joseph Roth
Trad. Anna Rosa Azzone Zweifel, Ervino Pocar, Renata Colorni, Luciano Fabbri
Adelphi (Biblioteca Adelphi)
pp. 455
euro 25

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