RUMORE BIANCO di Don DeLillo

Il libro presenta tre parti: nella prima l’autore mette in scena il disagio psichico di una “normale” famiglia iper-allargata, (lui, Jack; lei, Babette) con figli eredità biologica di precedenti rapporti – scorie radioattive di passati non metabolizzati – e l’imperativo del consumo per sostenere il sistema: infatti, il titolo fa riferimento, in statistica, a una serie in cui ciascun valore è imprevedibile rispetto ai precedenti, il tutto è scorrelato; tale estraniamento in cui ogni cosa, ogni concetto, galleggia come una monade senza riferimenti con il resto, è prodotto dal consumismo e dalla tecnologia, a cui finiamo tutti per cedere le armi.

Comperavo con abbandono incurante. Comperavo per bisogni immediati ed eventualità remote. Comperavo per il piacere di farlo, guardando e toccando, esaminando merce che non avevo intenzione di acquistare ma che finivo per comperare. Mandavo i commessi a frugare nei campionari di tessuti e colori, in cerca di disegni esclusivi. Cominciai a crescere in valore e autoconsiderazione. Mi espansi, scoprii aspetti nuovi di me stesso, individuai una persona della cui esistenza mi ero dimenticato.

Per tutta la prima parte, il lettore veleggia tranquillo (o almeno crede) tra una lezione di Jack su Hitler, argomento nel quale è un’autorità, e un pomeriggio di jogging di Babette, la cui tendenza alla pinguedine è motivo di attrazione sessuale per gli uomini.

Sembra non accadere niente. Calma piatta d’un lago appena increspato dalla brezza dell’irrilevanza: ma sotto la superficie dell’acqua s’agitano le forme in tensione per emergere dall’increato; la prima stilettata che DeLillo propina al lettore è micidiale: una nube tossica – siamo nella seconda parte – frutto d’un incidente ferroviario smaschera il velo di Maya e rileva la presenza del doppio, del negativo della vita colorata che non sarà mai più la stessa, si scopre che si deve fare i conti col fatto di poter morire; il romanzo si svela essere un’amara riflessione sulla paura della morte nella società moderna e sull’ossessione per le cure mediche e per la tecnologia, in senso più ampio.

Il fumo scorreva fluttuando dai raggi di luce rossa verso l’oscurità e poi negli ampi fasci dei fari bianchi panoramici. Gli uomini in tuta di mylex si muovevano con cautela lunare. Ogni passo costituiva la manifestazione di un’ansia non legata all’istinto. I pericoli insiti nella situazione non erano né fuoco né esplosione. Quella morte sarebbe penetrata, filtrata nei geni, avrebbe fatto la sua comparsa in corpi non ancora nati. Si muovevano come in un alone di polvere lunare, ingombranti e traballanti, prigionieri del concetto di natura del tempo.

L’ultima parte è una corsa vorticosa sul bordo della vita, in equilibrio sulla morte, anzi sulla paura della morte. Babette si scopre affetta dal male di vivere, per stare a galla è vittima di una sedicente multinazionale farmaceutica che su di lei ha sperimentato la pillola che rimuove la paura della morte, come contropartita deve soggiacere alle brame sessuali d’un sensale che consuma pillole e incubi in quantità industriali. Inoltre, tra gli effetti collaterali della medicina, v’è una forma di identificazione delle parole con le cose descritte dalle parole, non si ha più consapevolezza tra cosa in sé e rappresentazione.

Ma anche Jack dopo l’esposizione alla nube, e in seguito ai dialoghi sempre più allucinati con Babette, ha sviluppato una sorta di morte sospesa, su cui i medici sono alquanto evasivi, per cui anch’egli vorrebbe essere sollevato dal terrore della fine utilizzando le stesse pastiglie di cui ha già fatto uso sua moglie. Babette rivela a Jack il ricatto al quale ha dovuto sottostare per avere le pillole.

Si aprono le pagine più allucinate del libro, un linguaggio abbacinante alterna sapientemente discorso logico e discorso retorico, con una contaminazione sapiente tra i due registri: un linguaggio puramente logico non avrebbe trasmesso l’orrore di fronte al baratro della vita, un significante puramente emotivo non avrebbe spiegato il solco epistemologico vissuto dal protagonista. Le proposizioni principali e le incidentali si scontrano in un duello di lame affilate: si rivede il genio che sta dietro Underworld, capolavoro di DeLillo del 1997, probabilmente in assoluto uno dei migliori libri degli ultimi venticinque anni.

Il finale è la parte più debole dell’opera, si recita l’amnistia morale per tutta l’umanità, per ogni delitto commesso, del resto come ci ricorda Ivan Karamazov–Dostoevskij, se dio non esiste allora tutto è permesso: Jack non riesce a uccidere l’aguzzino di sua moglie e anzi, a sua volta, rimane ferito; verranno salvati dall’intervento di un gruppo di suore la cui fede in un dio si è trasformata in una stanca visione neopositivista del mondo: siamo al di là del bene e del male, non è possibile esprimere giudizi morali.

Il libro ha svariate chiavi di lettura: la principale è la riflessione sull’impossibilità ma anche l’irragionevolezza di liberarsi della paura della morte: per DeLillo essa appartiene alla vita, sta al di qua del bordo, non al di là, come in quasi tutte le religioni. La morte segna il limite, marca il confine tra Vita e Nulla, che della vita è l’ombra. Senza la consapevolezza della morte la vita perderebbe di valore, il tempo sfuocherebbe in un infinito niente e l’Uomo perderebbe la consapevolezza di sé; infatti, nel racconto, la medicina per guarire dalla paura della morte decostruisce la certezza della Parola che diventa obliosa di silenzio, inadatta ad alimentare il bisogno dell’Uomo di confrontarsi con i propri simili, di distinguere il suono dalla cosa che questo descrive: quando Jack pronuncia di fronte allo scienziato ferito: “Velivolo in caduta, – dissi, pronunciando le parole in tono animato, pieno di autorità”, questi crede che l’incidente sia reale, “Gettò via i sandali scalciando, si raggomitolò nella posizione raccomandata in caso di disastro aereo…”.

Per liberassi della paura della morte l’Uomo si getta nel baratro della tecnica nei cui confronti, come nella ballata di Goethe, è una sorta di apprendista stregone incapace di controllare lo svelamento dell’Essere della tecnica: per DeLillo vale quello che ebbe a dire Heidegger, “la tecnica nella sua essenza è qualcosa che l’uomo di per sé non è in grado di dominare”.

Nel 2022 il regista Noah Baumbach ha diretto un adattamento cinematografico di Rumore bianco, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

RUMORE BIANCO
Don DeLillo
trad. Mario Biondi
Einaudi (ET Scrittori)
pp. 400
euro 14

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