«Come si chiama, giovanotto?»
«Bento Spinoza. In ebraico mi chiamano Baruch».
«E in latino il suo nome è Benedictus. Un nome bello, santo. Io sono Franciscus van den Enden. Dirigo un’accademia di studi classici. Spinoza, ha detto… uhm, dal latino spina e spinosus, che rispettivamente significano “spina” e “pieno di spine”».
«De Espinoza, in portoghese» dice Bento, annuendo. «“Da un luogo pieno di spine”».
«Il suo genere di domande può risultare spinoso per gli educatori ortodossi e dogmatici». Le labbra di van den Enden s’increspano in un sorriso malizioso. «Mi dica, giovanotto, lei è stato una spina nel fianco dei suoi insegnanti?» Anche Bento sorride.
Con affascinante maestria e profonda abilità, Irvin D. Yalom, dopo Le lacrime di Nietzsche e La cura Schopenhauer, inventa l’ennesimo romanzo a marchingegno, un’altra bomba pronta a esploderti nelle mani che non c’è modo di lasciar andare prima di averlo letto fino in fondo.
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