Virginia, dunque, è seduta in una poltrona dall’alto schienale al centro di una stanza piena di libri, di fotografie e di oggetti che stanno acquisendo a poco a poco lo statuto di reliquie per essere stati così covati dal suo sguardo, irrorati dal suo respiro. Pensosa, contempla la sua mano splendida; tiene una sigaretta, o forse un piccolo sigaro. Virginia non teme né il caldo né le ire dell’inverno – lei pensa.
Leggere le ultime righe di Virginia di Emmanuelle Favier (editore Guanda) è stato come guardare il sipario chiudersi a nascondere la scena e gli attori alla fine della rappresentazione. Non vorresti lasciarli andare, non vorresti lasciare andare Virginia verso l’icona Virginia Woolf e la sua nota fine. In questa parte della storia, Favier ci permette di essere gli osservatori dell’inizio del tutto e di limitarci solo a sottintendere il mostro agitarsi sotto la superficie delle acque. Gli anni di Ginia, Miss Jan sono descritti l’uno dopo l’altro come una sequenza di quadri teatrali, lasciando lo spettatore/lettore a volte in prima fila, a volte in piccionaia ma sempre legato alla protagonista anche quando i suoi pensieri si perdono nei primi deliri di quella malattia mentale che l’accompagnerà per tutta la vita.
La sua fragilità irrita, perché non c’è ancora il genio a giustificarla. Finché non accade a se stessa, è inimmaginabile che la si ami per quello che è. Per il momento non è che una fonte di preoccupazione. A volte la opprime un’angoscia senza che ne sappia la ragione – passa in rivista le cause possibili, le elimina una a una e si ritrova con le mani vuote di tutto, salvo questa sofferenza anestetizzante. Ogni tanto ha delle eccitazioni, degli entusiasmi improvvisi che, tanto quanto l’apatia, allarmano sempre di più i suoi cari. È cresciuta troppo in fretta, al punto da perdere il suo centro di gravità, con il lungo corpo che denuncia lo sfasamento rispetto alla vulnerabilità della mente. È un’altra manifestazione del fatto che si mostra eccessiva in tutto.
I famigliari di Virginia condividono la scena (la Madre, il Padre) o restano solo comparse (il fratellino minore Adrian) o addirittura fantasmi che riescono comunque a influenzare gli eventi e il carattere. Tra questi, il primo marito della diafana Madre Julia, che si distingue per il lutto e l’altruismo incrollabili così vittoriani, vedova di Mr Duckworth morto improvvisamente e immortalato nel gesto di raccogliere un fico. La bellezza delle donne della famiglia materna è una delle altre entità impalpabili ma pesanti per Virginia, da sempre insicura del proprio aspetto e l’ombra intellettuale del Padre lo è per i suoi pensieri, che stentano a liberarsi, oppressi dall’atmosfera cupa della ricca casa londinese di famiglia, descritta quasi come un maniero di una brutta favola, così diversa dall’atmosfera più rarefatta della casa al mare in Cornovaglia e dalle strade dell’amata Londra, dove può camminare e osservare il succedersi delle stagioni. Le foglie cadono insieme alle persone, più o meno importanti e, contemporaneamente, nascono nuove gemme. Le parole incantate di Favier consentono di sentire quello che Virginia sente e di vedere quello che vede, con la stessa nebbia e la stessa luce che arriva, alla fine, quando il vecchio dramma vittoriano con i suoi personaggi viene lasciato indietro dal tempo, dalla morte, dalle scelte. Nonostante tutto quello che sappiamo, il libro lascia credere alla possibilità di un finale diverso perché, in fondo, Virginia è una giovane donna, in un secolo nuovo ed è ormai pronta ad attraversare il confine del suo talento innovativo.
Virginia si chiede se poi esista la scrittura femminile, la frase femminile – ecco, due parole femminili, si dice, anzi no, non si dice niente, perché la lingua inglese non si pone neanche il problema, il che spiega senza dubbio molte cose. Si tratta di scrivere come una donna che ha dimenticato di essere donna e dunque non ha più bisogno di nasconderlo. Si tratta di torcere il collo a quelle che l’hanno preceduta, in particolare a Jane Austen che malgrado il suo genio era solo una prima tappa, una prima autorizzazione data alle donne. Tra l’altro post mortem, perché da viva ha visto i suoi libri pubblicati solo sotto anonime perifrasi – a lady, the author – e il suo epitaffio la descrive soprattutto come figlia di suo padre. Torcere il collo anche alle Brontë che, pur avendo scelto di passare dallo pseudonimo maschile, non hanno potuto, scrivendo, dimenticare di essere donne.
VIRGINIA
Emanuelle Favier
Trad. Alba Bariffi
Guanda
pagg. 304
19 euro
Anche l’inquieta Virginia si sarebbe fatta ammaliare dall’appassionata e capillare recensione di Simona, che da semplice osservatrice sì è lasciata attraversare dalla luce che increspa le acque di un’anima tormentata, catturandone l’essenza Complimenti alla neo “recensionista”!
Sister D